Quando ero un operatore giovanile, facevamo il punto di bruciare il brindisi prima di ogni concerto rock, ogni notte di giochi, ogni sessione che tenevamo per i giovani nel nostro centro giovanile. Uno degli animatori è stato sempre incaricato di inserire due pezzi di pane nel tostapane e, ogni volta che i pezzi di pane rimbalzavano, li spingevano giù fino a quando non bruciavano e cominciavano a fumare. Quindi il lavoro del lavoratore era di far uscire il fumo dalla cucina e nel resto dell’edificio in modo che, quando i giovani arrivassero, il centro giovanile avrebbe l’odore di casa.
Il brindisi bruciato è un potente mnemonico, un ricordo familiare e inconfondibile della casa, e il centro giovanile serviva come una casa alternativa per molti giovani, che per definizione stavano affrontando un futuro incerto, privati di ciò che una volta era familiare, avendo intrapreso sulla pubertà e il lungo, doloroso viaggio verso l’età adulta.
In un certo senso, tutti i giovani sono rifugiati. Certo, la maggior parte non fugge dagli orrori della guerra, dalle persecuzioni o dagli attacchi economici, ma tutti i giovani condividono un senso di esilio duraturo. Pensa a James Dean, alla deriva in un mondo insensibile, di Holden Caulfield, alienato e isolato. Pensa ai tanti giovani che cercano di trovare qualcosa in cui credere, qualcuno di cui fidarsi, un modo per cercare di capire i capricci del mondo.
Separandosi dai loro genitori come devono, i giovani entrano in una specie di limbo tra l’infanzia e l’età adulta, un posto dove nessuno appartiene veramente, dove le regole sono ormai poco chiare, dove le vecchie conoscenze e le simpatie non si applicano più. Sono per sempre esiliati dalla casa che conoscevano una volta. Possono andare avanti ma non possono tornare indietro perché in qualche modo tutto è cambiato. I loro genitori sono cambiati. I loro corpi sono cambiati. I loro entusiasmi sono cambiati. I giovani sono come rifugiati, alla ricerca di un nuovo significato, di un nuovo scopo, di una nuova casa.
E come rifugiati, ispirano sentimenti contrastanti in quelli di noi che ci hanno preceduto, gli occupanti della nuova terra dell’età adulta che si sono già stabiliti, costruendo i nostri recinti e disponendo i nostri averi, guardando sospettosamente questa ultima serie di rifugiati in caso essi minacciano ciò che abbiamo già stabilito. I rifugiati sono orribili ricordi di un tempo in cui anche noi eravamo alla deriva, dipendenti, senza speranza; di un tempo in cui anche noi eravamo spaventati e non amati.
Ognuno ha forti sentimenti nei confronti dei rifugiati: a volte si sentono protettivi e di supporto a loro e talvolta vogliono combattere la loro causa; altre volte ci sentiamo sospettosi, risentiti, oppressi dalla loro impotenza. Abbiamo sentimenti particolarmente forti nei confronti dei giovani rifugiati, separati dai loro genitori, terrorizzati e impotenti, alla mercé di persone potenti. Vogliamo portarli dentro? Possiamo sopportare di essere ricordati a noi stessi? Delle nostre vecchie vulnerabilità?
Quando vediamo giovani rifugiati che fanno la coda al confine o aggrappati a barche sovraffollate, forse siamo grati che non siamo più noi, che abbiamo trovato una casa, un amico, uno scopo nella nostra vita. Forse abbiamo tutti la sensazione di come potrebbe essere entrare in uno strano edificio dove l’odore improvviso di bruschette bruciate è un promemoria di qualcosa di perso e qualcosa di potenzialmente trovato.