Una favola evolutiva che mette le guerre culturali nel contesto

Come abbiamo saputo, dalla culla della vita alla nostra grave situazione.

Una favola evoluzionaria

Non molto tempo fa nessuno poteva sentire o parlare. Le persone si sforzavano senza pensare, guadagnandosi da vivere il meglio che potevano, senza mai un momento di piacere, dolore o pensiero, semplicemente facendo ciò che veniva naturalmente, cercando tutti, alcuni prosperando, altri morendo. Molti di loro sono con noi oggi – piante, funghi, microrganismi.

Non si sono mai chiesti cosa fare perché, senza parole, non potevano. Senza sentimenti, non potevano imparare. Ma potevano combattere, spesso fino alla morte – per la luce del sole, cibo, acqua, spazio. Sebbene abbiano cercato di impedire la propria morte, la loro morte non ha fatto male.

Poi alcuni dei loro figli hanno sviluppato sentimenti e, con loro, hanno imparato, anche se non hanno imparato il nostro modo di parlare. Il loro apprendimento era più lento, più semplice.

E molti di questi hanno gridato “il mio!” Con odori o suoni mentre continuavano a combattere per la luce del sole, cibo, acqua e spazio. Questi muti, sentiti, guaiti sono ancora con noi, gli animali che le persone hanno sulla terra. Con i sentimenti, morire ora fa male, anche se non è come il nostro, solo il guaito, “il mio!” E “ahi!” E poi via.

Poi alcuni dei figli di queste persone, i nostri antenati, hanno trovato parole, suoni diversi che potevano mescolare e piegare per restringersi su qualsiasi cosa, reale o immaginata, ora o sempre, qui o altrove.

Era come se qualcuno accendesse le luci e le superfici e le zone circostanti si unissero a un serraglio imprevisto, una tormenta monsonica di nuovi e abbaglianti segni abbaglianti, le persone ora ricoperte da presagi, richiami e richiami, una torre di chiacchiere che risuonava dentro ogni la mente formulata, e con essa, la ricerca di sottomettere il baccano, un’ultima parola per restituirli a fare ciò che veniva naturale come prima di tutte quelle parole.

E chiacchiera anche tra di loro, parlando, corteggia, persuadendo, vendendo, litigando, discutendo, e nuovi tipi di combattimento, soprattutto su cosa fare, anche se ancora con quella sottofondo tutta la vita di “mio!”

Letteralmente inquietante, turbato dalle loro labbra, i lessici e le letterature appena illuminati e liberati. E così sconvolto, nessuna parola stabilì che altre parole non potessero tornare indietro inquiete.

Questi erano i nostri antenati; parole, la condizione umana.

Per oscurare i dini, si accalcarono nelle tribù, cantando le loro parole migliori, ignorando e battendo via le parole inquietanti. Volevano fare ciò che veniva di nuovo naturale e invocavano la natura per ricordarli, come se attraverso il baccano sentissero un decreto di Dio solitario, “Questa è l’unica cosa vera che devi fare ora e per sempre, e per questo è il tuo. “La gente si annidava come tribù nelle loro ultime parole, con la voce definitiva di tutta la natura immaginata, la loro ali di Dio super-naturale per nuotare dentro.

Per tutto il tempo, le persone usavano le parole per creare nuovi strumenti. Strumenti per estrarre di più da tutto, più “mine” più “nostre” più ore per più persone, vite più lunghe e carichi più leggeri.

E alcune tribù crebbero, inghiottendo gli altri nelle loro guerre di parole e strumenti fino a spazzare via le ultime parole di Dio unite a metà interi del mondo, monoteismi monocroponici per sistemare il baccano.

Alcune persone si sistemarono nel din in un modo diverso, non con le ultime parole ma con un approccio metodico lungo le superfici e l’intorno con un’attenta larghezza testarda, il loro “mine” si oscurò, in modo che potessero iniziare a tracciare i contorni di ciò che chiamavano realtà, ciò che non cede alle chiamate di “mio” e “nostro” ma farà quello che fa.

Questo ha creato la situazione di oggi. Alcuni non si fidavano di noi senza le nostre ultime parole definitive e definitive, persone che temevano che senza di loro saremmo persi. Per loro, meglio unire attorno a un mondo le ultime parole, o per permettere a ciascuna tribù le sue ultime parole private.

Altri hanno scelto di rinunciare alle ultime parole, rinviando invece alla realtà che viene messa meglio a fuoco attraverso la capacità umana di esprimere il nostro modo sempre più profondo in esso, indovinando in tal modo come fare più ore per più persone, vite più lunghe e carichi più leggeri. Perché c’erano ancora le persone di tutti i tipi e l’onnipresente realtà senza voce che le nostre parole possono mai provare a discernere in modo ampio con attenzione, centimetro per centimetro tracciato attraverso il grande frastuono.

A parole, c’erano quelli che speravano attraverso le parole per la fine dell’evoluzione, un finale che si riposa in parole ultime, annidato sotto le ali di Dio. E c’erano quelli che hanno riconosciuto che l’evoluzione continua e così si sono impegnati a adattarsi sempre, non mitigati dalle nostre nuove parole.